Tessuti antivirali, virus e finissaggi

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Tessuti antivirali, virus e finissaggi 

 

Probabilmente ti stai chiedendo per quanto tempo il Coronavirus SARS-CoV-2 all’origine del Covid-19 può rimanere sui tuoi indumenti, o su tessuti e capi che forse produci, e se esistano tessuti realmente antivirali.
La risposta non è semplice!

In questo articolo parleremo di persistenza dei virus in particolare su tessuti, degli antivirali disponibili, di aspetti e criticità dei tessuti antivirali e dei relativi finissaggi.

Se hai fretta, scorri l’indice e vai al capitolo che ti interessa: non è indispensabile leggere tutto dall’inizio.

Ho due speranze. La pima è di convincerti a cimentarti in nuovi antivirali per tessuti. Se ci riuscissi, la seconda speranza è che tu ti convinca ad essere molto cauto nel vantarne gli effetti.
So che gli uomini del marketing fremono per lanciare tessuti antivirali contro il Covid-19.
Ma dobbiamo fare attenzione alla comunicazione. Serve prudenza. Leggendo, comprenderai che i tessuti antivirali sono una grande opportunità, ma è un po’ …presto: c’è ancora molto da sperimentare prima di vantare qualche utile certezza.

Buona lettura!
(Pubblicato il 25 giugno 2020, Rev. 1 )

 

1. Quanto persiste il Coronavirus?

Molti studi scientifici stimano per quanto tempo il SARS-CoV-2 può rimanere rilevabile nell’aria, sulle superfici di differenti materiali e su oggetti di comune uso. Scorriamone qualcuno.

Effetti di temperatura e umidità

La National Library of Medicine (USA) da tempo aveva fornito indicazioni interessanti sul “vicino” Coronavirus  SARS-CoV (simile, ma non è l’attuale CoV-2). Lo studio riguarda la sopravvivenza del virus in varie condizioni di umidità e temperatura.
Secondo lo studio, il CoV sopravvive meglio con umidità relativa del 50%.
Con clima secco (umidità 30%), ci vogliono 6 giorni per eliminare quasi tutto il virus infettivo originale.
Con clima umido (umidità 90%), il CoV si disattiva molto prima, in soli 2-3 giorni.
Ma attenzione, dice lo studio: se fa freddo (sui 6 °C), allora il virus vive molto a lungo!

Temperatura e umidità sono fattori che incidono parecchio su persistenza e attività dei coronavirus.

 

Effetti su diversi materiali

Sul New England Journal of Medicine (USA, 16 aprile 2020) un’autorevole studio ripreso da più parti confronta i comportamenti dell’attuale SARS-CoV-2 rispetto al più noto e “vecchio” SARS-CoV-1.
Essendo simili, possiamo pensare che abbiano persistenze similari? La risposta dello studio è: dipende!
Su acciaio e plastica (forse anche su fibre sintetiche) le persistenze dei due virus sono simili: 7 e 8 ore di “emivita” (l’emivita è il tempo in cui l’attività virale si dimezza).

Ma attenzione. Nell’aria, il SARS-CoV-2 ha un’emivita di 3 ore, su rame addirittura solo 1 ora, invece il “vecchio” CoV-1 persiste molto più a lungo. Su cartone le emivite si “capovolgono”: il CoV-2 ha un’emivita di 5 ore, mentre il CoV-1 persiste molto meno.

Salvo misurare, non possiamo fare ipotesi di persistenza del SARS-CoV-2 a partire delle persistenze di altri virus. Interessante il rame! È in grado di danneggiare (o alterare) in breve tempo il virus che si depositasse in superficie.

 

Persistenze più lunghe del previsto

L’International Journal of Environmental Research and Public Health ha pubblicato lo studio dal titolo COVID-19 Surface Persistence (CH, 30 aprile 2020). In questa ricerca si sostiene che, su diverse superfici, il Coronavirus persiste nello stato infettivo addirittura fino a 9 giorni (!). E la disinfezione delle superfici, oltre che con ipoclorito di sodio allo 0,1%, può eseguirsi con alcol etilico (fra il 62% e il 71%), ma per 1 minuto almeno. Questo tempo è doppio di quello considerato usualmente “sufficiente”, pari a 30 secondi come tutti sanno.

Lo studio prudentemente conclude che su diverse superfici, e anche su superfici biologiche, sono necessari altri esperimenti per comprendere meglio i tempi di persistenza e promuovere così standard adeguati di prevenzione e disinfezione.


Cotone antivirale migliore della plastica

MedRχiv (oscura scritta che si legge “med-archive”) ha pubblicato l’articoloStability of SARS-CoV-2 on Critical Personal Protective(USA, Yale University, 12 giugno 2020). In questo studio, la persistenza dell’attività virale è stata monitorata per ben 21 giorni su 8 materiali diversi, fra cui guanti in nitrile per uso medico, guanti resistenti alle sostanze chimiche, mascherine respiratorie antiparticolato di tipo N-95 (FFP2) e N-100, altri materiali come il Tyvek (polietilene ad alta densità), la plastica, il cotone e l’acciaio inox.

Su questi materiali, il virus è stato inoculato sperimentalmente con una pipetta e, a differenza di precedenti esiti di ricerche, si è rilevato che il SARS-CoV-2 può persistere fino a 21 giorni su DPI, comprese le mascherine respiratorie antiparticolato N-95 (FFP2) e N-100 e le visiere trasparenti in plastica.
Al contrario, su tessuto di 100% cotone, il virus ha subìto un degrado rapido e non è stato più rilevato nell’arco di 24 ore.

 

 

Cotone e lana già in un vecchio studio

Si tratta di uno studio (USA) vecchio di oltre 50 anni, dal titolo Persistence of Vaccinia Virus on Cotton and Wool Fabrics (R.Sidwell e altri). Questa ricerca offre interessanti spunti circa il comportamento dei virus su tessuti e sulle interazioni virus-tessuti, anche se non si parla espressamente di Coronavirus SARS-CoV-2.
Ecco i risultati salienti che mi sembrano più interessanti, se pure esposti in modo telegrafico.

  • I virus applicati tramite aerosol persistono più a lungo di quelli applicati tramite inoculo
  • I virus sono più persistenti in ambiente asciutto e meno persistenti con umidità elevata
  • Il tipo di fibra e la costruzione tessile influenzano la persistenza dei virus
  • I virus persistono più a lungo sulla lana e meno a lungo sul cotone
  • Le fibre di lana sono costituite principalmente da cheratina e hanno una cuticola di squame sovrapposte. Le fibre di cotone sono tubi di cellulosa appiattiti, ritorti con piccola quantità di pectine e cere nella parete esterna. Il contenuto di umidità naturale della lana è superiore a quello del cotone (quindi dovrebbe disattivarsi prima). Probabilmente esiste la possibilità che il virus abbia più “spazi” nelle fibre di lana rispetto al cotone, quindi potrebbe mantenersi attivo più a lungo.
  • Poiché l’attività virale diminuisce usualmente in proporzione al tempo, si può concludere che il virus perda la sua attività durante il tempo di magazzinaggio dei prodotti tessili.

 

2. Quanto è grande il Coronavirus?

Noi tessili parliamo spesso di nanotecnologie, ma per capire come affrontare e trattare un virus come il Coronavirus SARS-CoV-2 dobbiamo farci un’idea precisa della reale dimensione di questa particella.

Nella foto compare una particella virale (per chi riesce a vederla), adagiata su una fibra di lana. Per fortuna (o per sfortuna) i virus solitamente viaggiano in raggruppamenti. Ma anche mettendo insieme 1000 particelle, non si raggiungono “grappoli” di dimensioni molto rilevanti!

Le superfici scabre costituiscono per il virus immense voragini e fantastici nascondigli, in fondo ai quali può finire, ben protetto, in attesa che un liquido o una forza elettrostatica lo ripeschi.

Qualche volta faremmo bene a immaginare il mondo come lo vede un virus. Capiremmo così molti dettagli fondamentali, utili non solo per fare le mascherine del futuro, ma anche per scegliere e impiegare efficacemente prodotti e principi attivi antivirali per tessuti.

Per esempio, capiremmo che un filo di rame (fortemente antivirale), abbinato a un filato di cotone, non cambia di molto la vita al virus. Infatti, un virus che finisse sul cotone, nemmeno saprebbe che a distanze di migliaia di volte la propria dimensione c’è del rame che gli potrebbe nuocere.
Ne deriva che un tessuto 90%cotone-10%rame è interessante, ma non può avere apprezzabili effetti antivirali. Questione di dimensioni… (che male può fare a un topo immobile un veleno distante 100 metri?). 

Il virus non è un batterio!

A differenza dei batteri, il virus non è una particella “viva” nel senso comune del termine.
Il virus non si muove, non respira, non mangia. Altro non fa se non aspettare che una cellula vivente gli capiti a tiro. Allora i suoi spuntoni di glicoproteine producono una piccola lesione nella membrana della malcapitata cellula. Il virus si “apre” verso l’interno cellula e, in men che non si dica, ne assume il comando, trasformandola in una macchina per fare copie di sé stesso. Se gli anticorpi del nostro sistema immunitario non intervengono al volo (perché non “addestrati” contro il nuovo intruso), in poche ore siamo infetti!

 

3. Il Coronavirus ha punti deboli?

Il Coronavirus SARS-CoV-2 all’origine del Covid-19 è un virus “incapsulato” (enveloped) e questi tipi di virus non sono tanto fragili.  Secondo alcuni studi, non vengono inattivati ​​da parecchi principi attivi antibatterici e disinfettanti, nemmeno da composti di ammonio quaternario o da composti fenolici.

Il semplice sapone, come ho esposto in altro articolo, è un fantastico rimedio capace di “sfasciare” letteralmente il virus. Con il sapone possiamo lavar le mani o i capi di abbigliamento, ma purtroppo non possiamo vendere tessuti insaponati…

Il virus non è fatto da molte cose. Una è la capsula che serve ad inglobare il virus. È di natura lipidica, è cioè un “grasso”. Volendo arrecar danni al SARS-CoV-2, questa capsula grassa è un ottimo punto di attacco a disposizione dei prodotti antivirali. In chimica si dice che il simile scioglie il suo simile. Una sostanza grassa può dissolvere un poco la capsula virale (come il sapone fa magistralmente) e il virus è spacciato.

Altro punto debole per disattivare il virus sono le proteine dalle quali è circondato: in particolare gli “spuntoni”, quella “corona” che tutti abbiamo visto nelle raffigurazioni del Coronavirus. Gli studi dimostrano che questi spilli sono di una glicoproteina a spillo. Questa consente al virus di attraccare e legarsi alle proteine ​​superficiali ACE2 delle cellule epiteliali umane del tratto respiratorio, infettando queste cellule (e noi con loro). L’interazione della glicoproteina a spillo con la proteina di superficie ACE2 della cellula ospite umana è un passaggio cruciale per l’infezione Covid-19.
Disattiviamo le proteine e il virus non si sfascerà, ma sarà inerme. Già questo basterebbe.

 

4. Sostanze che disattivano il Coronavirus

Per quanto ne sappiamo, questo virus si disattiva prima di tutto col sapone, poi con l’ipoclorito diluito, con alcol al 70-90% (il whiskey non basta), con l’ozono, con i raggi UVC, con il calore, con liquidi alcalini.

Questi mezzi però non sono utili per rendere un tessuto antivirale.
La letteratura scientifica accorre fortunatamente in aiuto dei tessili indicando che le nanoparticelle (NP) di vari metalli e di alcuni ossidi metallici sono molto promettenti per inattivare i virus. Hanno dimensioni paragonabili ai virus e per questo interagiscono con esso facilmente.

Ecco alcune di queste nanoparticelle antivirali:

  • ossido di zinco (ZnO NPs),
  • ossido rameoso (CuO NPs),
  • argento (Ag NPs),
  • ioduro di rame (CuI NPs),
  • oro su nanoparticelle di silice (Au@SiO2 NPs)
  • alcuni cationi di ammonio quaternario (comunemente chiamati QAS)

Va peraltro rilevato come, nel caso di tessili a contatto con la pelle, le nanoparticelle di metalli non siano particolarmente ben viste. Pare infatti che, causa le loro dimensioni nanometriche, possano essere rilasciate e assorbite attraverso l’epidermide, un po’ come avviene con i farmaci dei cerotti transdermici.

 

5. Sostanze per tessuti antivirali

Salvo omissioni (di cui chiedo scusa sin da ora), i principi attivi per trattamenti tessili antivirali oggi disponibili sono costituiti da una (o più) delle sostanze seguenti:

  • Cloruro di argento
  • Biossido di titanio
  • Composti di ammonio quaternario
  • Argento adsorbito su biossido di silicio
  • Polieteramina – epicloridrina
  • “Vescicole” lipidiche

Ciascun produttore di antivirali per tessuti spinge ovviamente il suo prodotto, presentando prove, performances e documentazioni. Sospendo il mio giudizio, perché scopo per cui scrivo è fornire agli utilizzatori elementi perché possano fare utili considerazioni e trarre proprie conclusioni.

A questo scopo, passiamo in rassegna brevemente alcune delle sostanze qui citate per capire cosa sono e cosa fanno.

Cloruro di argento (AgCl)

Il cloruro d’argento è incolore; presenta bassa solubilità e lento rilascio di ioni argento che conferiscono proprietà antibatteriche al substrato su cui AgCl è presente. Le nanoparticelle d’argento sono state studiate principalmente per il loro potenziale antimicrobico contro i batteri. Esse hanno dimostrato di essere anche attive contro diversi tipi di virus, tra cui il virus dell’HIV, il virus dell’epatite B, il virus dell’herpes simplex, un virus respiratorio e il vaiolo delle scimmie (US National Library of Medicine, National Institutes of Health).

Secondo altro studio (Nelson Durán e altri, Istituto di Chimica Estadual de Campinas, Brasile) le nanostrutture metalliche del cloruro di argento costituiscono una grande opportunità per sviluppare nuove terapie antivirali contro un ampio spettro di virus, riducendone l’attività come altri antivirali convenzionali.

Biossido di titanio (TiO2)

Superfici rivestire con TiO2 presentano proprietà di ridotta adesione nei confronti del particolato in genere. Le particelle virali potrebbero quindi avere maggiore difficoltà ad aderire a tessuti così trattati. Il TiO2 ha inoltre proprietà fotocatalitica quando attivato con ultravioletti “vicini” (UVA), presenti nella luce solare.

In queste condizioni, il TiO2 genera delle “Reactive Oxygen Species” (ROS), sostanze fortemente ossidanti in grado di trasformare sostanze organiche (come i batteri) in molecole inorganiche, come acqua e anidride carbonica. Si sviluppa così azione antimicrobica per decomposizione di batteri e funghi. In considerazione del meccanismo di azione, il TiO2 non è considerato un biocida, pur svolgendo azione antibatterica.

Composti di ammonio quaternario (QACs)

I composti di ammonio quaternario hanno dimostrato attività antimicrobica. Alcuni QACs (contenenti catene alchiliche lunghe) vengono usati come antimicrobici e disinfettanti anche di uso comune, come il benzalconio cloruro ( “Bialcol®”) e altri. I QACs sono efficienti anche contro funghi e amebe. Circa l’attività antivirale, essa pare manifestarsi contro virus “incapsulati” (enveloped) come il Coronavirus SARS-CoV-2 (“Handbook of Topical Antimicrobials”, Daryl S. Paulson, BioScience Lab., USA).

Questo effetto dipenderebbe da due fattori: l’affinità dei QACs verso le proteine che costituiscono la “corona” dei Coronavirus e la natura lipidica di cui è costituito l’involucro del Coronavirus.
L’efficacia dei QACs sarebbe invece assai limitata contro i virus non-incapsulati.

Polieteramina – epicloridrina

Vi sono alcuni studi, in particolare sulla Polieteramina i cui risultati dimostrano l’efficacia contro i batteri Staphylococcus aureus (gram +) e la capacità di legare il DNA attraverso la complessazione ionica (ShuangchengTang et al., Acta Biomaterialia, 2016), con effetto antivirale.

 

 

6. Finissaggi antivirali dei tessuti

In questi ultimi mesi sono comparsi sul mercato finissaggi per tessuti atti a conferire proprietà ritenute antivirali.

Perché un tessuto sia “antivirale” deve essere capace di disattivare il virus che vi si deposita sopra.

Questa semplice definizione non tiene conto di un fatto fondamentale, e cioè che anche sopra un tessuto non trattato il virus si disattiva sempre e comunque in un determinato tempo.

Il fattore “tempo” diventa quindi fondamentale e fa la differenza. Non basta che il virus si disattivi: occorre accertare che il tessuto antivirale sia in grado di disattivare il virus in un tempo decisamente inferiore rispetto al medesimo tessuto non trattato mantenuto nelle stesse condizioni.

Qui comincia qualche complicazione…

 

7. Misurazioni dei tessuti antivirali

Per essere credibili occorre fornire all’utilizzatore del tessuto un’evidenza certa circa l’efficacia antivirale del tessuto. In altre parole occorre una misurazione.

Fare questa misura per disporre di un dato certo non è affare semplice. Sicuramente, è molto più difficile, più complesso e più costoso che verificare se un tessuto è antibatterico.
E il problema sono proprio i virus: non si vedono e non si contano agevolmente e non si comportano certo come i batteri.

La prova dell’attività antivirale di un tessuto si può fare solo in laboratorio e al momento c’è una sola norma utile di riferimento (la ISO 18184) assai complessa e sulla quale torneremo fra poco.

Misurazioni su tessuti non trattati antivirali

Come accennavo, c’è un aspetto interessante da considerare, ovvero: quanto tempo impiegherebbe il virus a disattivarsi su tessuto (non trattato) in normali condizioni d’uso.

Noi non sappiamo quanto sia esattamente questo tempo. Sappiamo solo che – su quello specifico tessuto e nell’utilizzo specifico cui sarà soggetto – il virus a un certo momento si disattiverà, ma non sappiamo quando questo accadrà. Forse dopo minuti, forse ore, forse giorni. 

Quali parametri intervengono sul tempo di disattivazione di un virus sopra un tessuto privo di trattamenti antivirali?
Composizione fibrosa, tipo di finissaggio, luce solare, radiazione ultravioletta (UVC in particolare), ossigeno dell’aria, frazione di ozono, condizioni di umidità e temperatura, natura e quantità di sporcamenti superficiali del tessuto, carica virale iniziale (“numero” di particelle), attività virale iniziale (“vitalità” delle particelle), tempi e livelli di esposizione a ciascuno di questi fattori. E, probabilmente, parecchi altri fattori che qui sfuggono…

Le pove di laboratorio non possono tenere traccia di tutti i parametri che – in condizioni d’uso normali – già intervengono nella disattivazione del virus.  Quindi, in laboratorio, confrontiamo il tempo di disattivazione di un tessuto trattato antivirale con il tempo di disattivazione di un tessuto non trattato tenendo i tessuti “al riparo” da tutte (o quasi) quelle condizioni che, invece, nell’impiego pratico giocherebbero in favore della riduzione del tempo di disattivazione su tessuto non trattato.

Ne deriva che la misura dell’efficacia del trattamento antivirale potrebbe essere sopravvalutata.

 

Sono citotossiche le nanoparticelle dei tessuti antivirali?

Altro spunto di riflessione è se le NP efficacemente impiegate come antivirali possano comportare problemi di citotossicità.

Citotossico: qualsiasi agente o processo che uccide le cellule (fonte: MedicineNet)

Personalmente riterrei il problema limitato a tessuti che potrebbero rilasciare NP sull’epidermide. Mi sembra molto diverso il caso di NP contenute in un prodotto cosmetico e il caso di NP legate a una fibra tessile. Certamente è da valutare con attenzione la qualità del legame NP-fibra.

Ma questo è fortunatamente nell’interesse di tutti: produttore del principio antivirale, applicatore, utilizzatore. Infatti, un forte legame NP-fibra consente limitata eco-tossicità, alta resa del prodotto antivirale, buona solidità ai lavaggi, effetto antivirale prolungato. 

Studi eseguiti dopo 24 ore di esposizione a nanoparticelle di argento (“The Development of Silver Nanoparticles as Antiviral Agents”, John Christopher Trefry, Wright State University, Ohio, USA) evidenziano che tali AgNP non hanno effetto citotossico. Ciò che si è notato è che essi provocano una riduzione temporanea del metabolismo cellulare. Non è ancora chiaro se questa riduzione del metabolismo sia benefica per la cellula, promuovendo una “situazione antivirale”, o se sia invece un danno conseguente l’esposizione all’AgNP.

La ricerca indica che, se si accertasse che l’AgNP ha proprietà di indurre uno stato metabolico “ridotto” dal quale le cellule possono poi recuperare, ciò costituirebbe una nuova modalità di azione antivirale. Infatti, questo meccanismo di attività antivirale potrebbe impedire al virus di disporre del tempo necessario per “creare un appiglio” all’interno della cellula, dando al sistema immunitario il tempo per reagire e combattere efficacemente contro il virus intruso.

   

Dosaggi nei finissaggi di tessuti antivirali

Non è ragionevole pensare che il principio attivo antivirale, se pure in nanoparticelle, possa “rivestire” l’intera superficie di tutte le fibre che costituiscono un tessuto.
Ancora una volta dobbiamo domandarci: cosa vede un virus che finisca sopra un tessuto di trattato antivirale con nanoparticelle?

Credo veda enormi nastri che si intrecciano, fatti da piste larghissime sulle quali, qua e là, compaiono ammassi di nanoparticelle.

Ora, se il virus è caduto a distanza dalla nanoparticella antivirale, è lecito pensare che nulla gli accadrà. Perché una particella di virus si disattivi, deve finire proprio sopra, o a fianco, di una nanoparticella antivirale.

Ne consegue che l’attività antivirale del trattamento dipende dal grado di ricopertura delle fibre con il principio attivo antivirale. Resta fermo il fatto che è impossibile ricoprire tutta la superficie delle fibre, ma solo una minima parte.

È un po’ come a guardie e ladri (ma qui sono tutti immobili…). Numero e posizioni delle guardie (le nanoparticelle) sono stabilite al momento del trattamento antivirale; numero e posizioni dei ladri (i virus) dipendono dall’individuo infetto che vi ha tossito sopra. Solo se il ladro finisce sulla guardia è catturato (ovvero: il virus è disattivato). Quante sono le probabilità?

Aumentare l’attività di un tessuto antivirale

L’efficacia del finissaggio antivirale si incrementa aumentando il dosaggio del prodotto antivirale.  

In base a quanto detto sopra, è palese che più antivirale applico, maggiore è la ricopertura delle fibre e quindi maggiore sarà la probabilità che una particella virale finisca sopra una nanoparticella antivirale.
Ma, come per un ammorbidente, l’incremento di dosaggio ha dei limiti che non sono solo di costo. 

Altro aspetto importante riguarda il lavaggio dei tessuti antivirali.

Le modalità di lavaggio possono essere diversissime a seconda del prodotto realizzato. Fuori dai laboratori, non esistono regole standard di lavaggio. Nell’uso pratico, la varietà delle condizioni di lavaggio è molto più complessa e variegata delle norme…
Queste diversità riguardano la frequenza di lavaggio (quindi il numero totale dei lavaggi nella vita del prodotto), il tipo di lavaggio, l’azione meccanica, la temperatura, il tipo di detersivo, il suo dosaggio…

Ogni lavaggio è una  “aggressione” del principio antivirale sul tessuto e comporta una sensibile, progressiva e inesorabile riduzione della quantità residua sul tessuto e quindi dell’effetto antivirale.

Anche in questo caso, per migliorare la durata ai lavaggi occorre aumentare il dosaggio del prodotto antivirale quando si esegue il finissaggio.

Efficacia e durata del trattamento antivirale: due aspetti fondamentali che, a pari principio attivo, dipendono dal dosaggio di prodotti assai costosi. Occorre considerare attentamente che, a differenza di un ammorbidente percepibile al tatto, il dosaggio di un antivirale è impossibile da verificare, salvo costose e non semplici prove di laboratorio.

 

8. Costi e garanzie nei finissaggi antivirali

I prodotti antivirali da impiegare nei finissaggi sono molteplici e, come si è detto, decisamente costosi.
Questi prodotti antivirali andrebbero impiegati – per tipologia e per dosaggi – in modo concordato e definito con il cliente in base al tessuto e alle performances da ottenere.

Purtroppo, prodotti e dosaggi non si “vedono” una volta sul tessuto; inoltre i prodotti sono costosi, come pure le prove di laboratorio per accertare la loro efficacia.  

In queste condizioni, inutile ignorarlo, i rischi di tessuti antivirali non conformi son elevati ed inoltre questi tessuti non idonei sono anche molto difficili da identificare, con il rischio di immetterli in commercio ugualmente.

Il finissaggio antivirale di un tessuto è quindi un’operazione costosa, molto delicata, da effettuarsi in rapporto fiduciario per l’oggettiva indisponibilità di metodi rapidi di controllo. Oltretutto, è un finissaggio che impatta su un aspetto riguardante la sicurezza del prodotto, quindi con precauzioni da considerare anche ai fini delle garanzie di legge cui è tenuto il produttore in questi casi.

Il minimo dei suggerimenti che riterrei opportuno dare è di rivolgersi a finissaggi dotati almeno di certificazione ISO 9001, richiedendo una dichiarazione di conformità per quanto riguarda natura e dosaggi del principio attivo utilizzato.
Inoltre, anche se molto costose, di eseguire prove in laboratori accreditati.

 

La norma ISO 18184

La ISO 18184 è nata il 1° settembre 2014 e ha subito revisione nel 2019. Questa norma serve per la determinazione dell’attività antivirale dei prodotti tessili. La metodologia, pur non escludendo il ricorso ad altri virus, impiega usualmente il virus incapsulato Calicivirus Felino (VR-782) e il virus non-incapsulato  influenzale (H3N2 o H1N1).

La norma prevede una metodologia non semplice e molto delicata, perché occorre valutare l’attività virale osservando non il virus, ma le altre cellule vive con cui viene posto in contatto allo scopo di infettarle e riprodursi.
Questo post è già lunghissimo: approfondirei questa norma, laboratori e risultati in un successivo articolo.

 

 

Conclusioni

Spero di aver fornito spunti utili, anche se mi rendo conto di non aver descritto come si fa a fare un tessuto antivirale!
Me ne scuso, ma non ho ancora elementi sufficienti.

È ancora troppo presto. Tanti ricercatori stanno lavorando sul Coronavirus e ti sarai reso conto che non tutti i risultati sono concordanti. Nemmeno i virologi concordano!

Sugli antivirali per tessuti contro il Coronavirus sono ancora pochi i produttori chimici che si stanno cimentando. Ad oggi, non sembra essere emersa una tecnologia migliore, né il principio attivo di elezione (anche se il cloruro di argento parrebbe favorito).

Vi è poi il problema aperto dei test sui tessuti antivirali. Su questo fronte sono ancora pochi sia i laboratori, sia i virus utilizzati, oltretutto differenti dal virus con cui ci siamo scontrati nei mesi scorsi.

Ne sappiamo parecchio, ma resta ancora moltissimo da scoprire e da capire. Certamente il tessile può essere di grande aiuto contro i virus e può sicuramente contribuire a limitarne la diffusione. È un’occasione formidabile per dimostrare quanto il tessile sia attuale e molto utile.

Il mio invito è quindi quello di cimentarsi in questo campo e provare le nuove sostanze antivirali su un vari substrati tessili.

Bisogna provare, riprovare, testare e controllare: avremo così modo di capire ciò che oggi ancora ci sfugge. E dal momento che ne sappiamo ancora poco, personalmente continuo a sostenere che serve grande prudenza nella comunicazione.

Non bruciamo sul principio il percorso che ci attende. Il momento invita i commerciali in direzione opposta, ma sui requisiti di salute e sicurezza non si scherza.

Se dichiariamo un tessuto “antivirale”, potremmo un giorno essere chiamati a dimostrarlo. In quel caso non basterà sostenere di aver fatto un finissaggio che qualcuno ha definito antivirale!

Andiamo avanti!
Buon lavoro e grazie per aver letto questo post.

 

Per ogni rettifica, integrazione o semplice commento: piero.sandroni@gmail.com

 

 

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